Passata la manifestazione in Via del Plebiscito, smontato il palco, riavvolte le bandiere,  reso l’onore delle armi a Silvio Berlusconi, a quale prospettiva politica vuole lavorare il centrodestra per non essere travolto dalle vicende giudiziarie del proprio leader ?  Per quanto partecipata, ma oggettivamente non più di tanto, la “chiamata alle armi” dell’ “Esercito di Berlusconi” non è andata oltre il puro e semplice appello ai sentimenti. Gli inni, le bandiere, gli slogan appartengono al livello emozionale dell’agire politico. Così come i “dolori” di Berlusconi, il suo abbraccio paterno, le sue angosce, espresse, insieme alla propria innocenza, alla folla, radunata di fronte alla sua abitazione romana.
Al di là della scontata difesa del Cavaliere, del richiamo alla sua figura di contribuente, dei suoi 41 processi, degli attacchi verso il regime dei magistrati, dell’elogio dei partiti della Prima Repubblica, stroncati – secondo Berlusconi – più che dalla loro congenita corruzione dalle trame oscure dei togati in rosso,  le prospettive politiche del centrodestra appaiono nebulose. Tanto più, vista la dichiarazione di fedeltà nei confronti del  governo delle “larghe intese”, che lega il PdL alle scelte del Quirinale, prima ancora che a quelle di Enrico Letta e del Pd,  e che, in attesa dell’auspicata “riforma della giustizia”, lo tiene sotto scacco.
La stessa scelta di volere unire i destini  politici  del partito a quelli personali del proprio leader espone il PdL ad un’inevitabile usura.
Se l’idea dell’uomo-solo-al-comando, incarnata da Berlusconi e condivisa dal gruppo dirigente del PdL, è stata, nel passato, il più grande limite del centrodestra, con evidenti ricadute negative sul territorio, sulla selezione del personale politico e  sulle sfide elettorali amministrative, legare, oggi, l’insieme di una battaglia politica ad una sentenza passata in giudicato  rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Intanto perché la condanna – per quanto considerata sbagliata – rimane e, a meno di improbabili “colpi di spugna”, pesa e peserà sulla tenuta, anche psicologica, del popolo di centrodestra. E poi perché la stessa struttura-partito, “debole” per scelta e vocazione, non sembra essere capace di reggere una lotta di lunga durata, appesantita com’è dalle tante delusioni politiche accumulate in questi anni, delusioni che – non dimentichiamolo – hanno  portato il PdL a perdere, alle ultime elezioni politiche, quasi sei milioni di voti rispetto al 2008.
L’emozione per il “martirio” di Berlusconi può invertire la tendenza ? O piuttosto sono ben altri i temi ed i problemi verso i quali gli italiani, anche vicini al centrodestra, vorrebbero una maggiore attenzione ? E che dire della completa mancanza di dibattito interno  e di autocritica da parte dei vertici pidiellini ? I vent’anni dalla prima “discesa in campo” possono essere archiviati senza un minimo di valutazione sulle cose fatte e su quelle mancate, nel nome del “ritorno alle origini”, del marchio-salvagente di Forza Italia ?
Al di là degli aspetti emozionali, legati alla manifestazione di Via del Plebiscito, sono molti – come si vede – i nodi non sciolti con cui il centrodestra dovrà fare i conti, non ultima la disaffezione degli italiani, di tutti gli italiani, verso i partiti e la domanda di discontinuità rispetto ad usurati modelli politici.
Storia non nuova, a ben guardare, che ricorda quanto avvenne tra il 1993 ed il 1994, gli anni della “discesa in campo” del Cavaliere. Allora c’era un “vuoto da riempire”, in termini politici e  “di valori”,   che Berlusconi riuscì a cogliere e ad occupare. Oggi il “contesto” seppure mutato appare percorso da un’analoga domanda di cambiamento. Con una differenza non di poco conto: il  Berlusconi di oggi, sentenze o meno,  non è più quello di allora. E gli italiani sembrano essersene accorti.